Il Volto di Cristo nell’interpretazione che Raffaello Sanzio ci offre nella sua Trasfigurazione è senza dubbio uno dei più grandi esempi dell’arte rinascimentale. Lo stesso Vasari nelle sue Vite affermò che “ …questa opera, fra tante quant’egli ne fece, sia la più celebrata, la più bella, la più divina. Avvenga che chi vuol conoscere e mostrare in pittura Cristo trasfigurato alla divinità lo guardi in questa opera, nella quale egli lo fece sopra a questo monte diminuito in una aria lucida con Mosè et Elia, che alluminati da una chiarezza di splendore si fanno vivi nel nome suo…”.
Datato tra il 1518 e il 1520, anno della morte dell’artista e ultima sua opera, la Trasfigurazione è un dipinto a olio su tavola che venne commissionato da Giulio de’ Medici, il futuro Papa Clemente VII per la cattedrale della sede episcopale di Narbonne, insieme a un’altra pala d’altare dedicata alla Resurrezione di Lazzaro, affidata a Sebastiano del Piombo. L’opera oggi conservata nella Pinacoteca Vaticana fu completata, nella parte inferiore da Giulio Romano, fedele allievo, e fu destinata invece alla Chiesa di San Pietro in Montorio dove vi rimase fino al 1797, per poi giungere in Francia e restituita nel 1816 quando Pio VII ne decise la definitiva destinazione.
“ Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui”, l’opera si ispira direttamente al Vangelo di Matteo, in alto l’episodio della Trasfigurazione sul monte Tabor, in basso la Guarigione dell’ossesso, il fanciullo indemoniato miracolosamente guarito da Gesù nel cammino di ritorno e per la prima volta inseriti in una stessa opera. In alto una luce sovrannaturale e trascendente che avvolge Gesù il figlio di Dio insieme ai profeti e agli apostoli sconvolti per la visione, in una composizione circolare ed energica caratterizzata dal movimento del corpo di Gesù che sale al cielo con le braccia alzate, in basso una luce terrena, quasi pre – caravaggesca ad illuminare una scena colma di personaggi che richiamano l’azione salvifica del Cristo.
Un’opera questa che ebbe una grande fortuna per tutto il Cinquecento e Seicento, un interesse straordinario iniziato già nel 1520 con la pubblicazione di un’incisione e con la stampa di un disegno preparatorio in cui le figure apparivano nude.
Come ricorda il Vasari alla morte dell’artista, l’opera venne esposta nella sala dove lavorava “ la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno che quivi guardava…, e fu poi sempre per la rarità d’ogni suo gesto in gran pregio tenuta”, così come tutta la sua opera. Raffaello morì il 6 aprile del 1520 a soli 37 anni, un Venerdì Santo in cui il cielo si oscurò e un terremoto che fece tremare il palazzo del Vaticano, furono i segni che i suoi contemporanei attribuivano alla sua divinità al punto di considerarlo quasi una reincarnazione del Cristo. Il suo corpo, come da lui richiesto, venne sepolto nel Pantheon. Questo l’epitaffio che Antonio Teboldo scrisse per lui “ Qui giace Raffaello, da cui, vivo, Madre Natura temette di essere vinta e quando morì ( temette) di morire ( con lui).”