“ Non pensi mai, scultore né artefice raro potere aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelangelo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte”. Così il Vasari nelle sue Vite celebrava il capolavoro della “Pietà” conservata nella Basilica di San Pietro in Vaticano e scolpita da un Michelangelo poco più che ventenne tra il 1497 e il 1499.
Era infatti il 27 agosto del 1498 quando Michelangelo firmò il suo primo contratto per un’opera di destinazione pubblica, la Pietà in marmo era stata richiesta dal cardinale Jean Bilhères de Lagraulas ambasciatore di Carlo VIII presso la corte pontificia. E’ l’unica opera che reca la firma dell’artista, sulla fascia che regge il manto della Vergine sta infatti scritto “ Michelangelus Bonarotus Florentinus Faciebat” e nonostante l’età anagrafica in cui fu realizzata, rappresenta uno dei vertici raggiunti dall’artista, sia per la perfezione anatomica dei corpi e il naturalismo virtuoso, che per l’innovativo schema compositivo, l’espressività e l’intensità psicologica del gruppo nel suo insieme.
Michelangelo scardina lo schema compositivo del soggetto della “Pietà” a lui precedente che vuole Maria con il busto eretto e verticale e il corpo di Gesù in posizione orizzontale con una soluzione innovativa in cui il corpo di Cristo è mollemente adagiato sulle gambe di Maria con estrema naturalezza a formare una sagoma piramidale. Con il volto inclinato e la mano rivolta verso chi guarda, Maria mostra il corpo del figlio deposto dalla croce. Maria vergine e madre ha le sembianza di una giovane donna e viene rappresentata come al momento del concepimento, anche questo un fatto straordinario che interromperà la secolare tradizione medievale di Maria sposa di Cristo e simbolo della Chiesa.
Il capolavoro della Pietà Vaticana non poteva mancare tra le opere selezionate per i Volti della Vergine – Volti di Misericordia a cura della storica dell’arte Ludovica Sebregondi e con un saggio di Antonio Paolucci direttore dei Musei Vaticani.