“Rimutò l’arte di dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno: et ebbe l’arte più compiuta ch’avessi mai più nessuno”. E’ Cennino Cennini nel suo Il libro dell’Arte scritto alla fine del Trecento a dare la definizione più sintetica ed efficace che caratterizza la rivoluzione messa in pratica da Giotto nella pittura dell’epoca e tutto questo a pochi anni dalla sua scomparsa avvenuta a Firenze nel 1337.
Tra le opere pervenute sino a noi e che appartengono all’ultimo periodo, tra il 1320 e il 1325, sono gli anni in cui Giotto si occuperà degli affreschi che tracciano le Storie di an Francesco nella Cappella de’ Bardi in Santa Croce è senza dubbio la bellissima tavola raffigurante Santo Stefano conservata al Museo Horne a Firenze.
Acquisita nel mercato antiquario, agli inizi del Novecento, dallo storico dell’arte e collezionista inglese Herbert Percy Horne, per una cifra all’incirca di 7 mila lire, all’epoca l’opera non era ancora stata attribuita a Giotto ma acquistata come opera di non ben identificato autore del Trecento, oggi è possibile ammirarla all’interno del Museo Horne a Firenze, pezzo di maggior pregio dell’importante collezione di dipinti su tavola del Tre e Quattrocento, sculture e arredi custodite nell’antico palazzo e allestiti in maniera da ricostruire alcuni ambienti di una tipica abitazione fiorentina a cavallo tra medioevo e Rinascimento.
Per le sue misure, 84X54 cm., l’opera fu avvicinata da Roberto Longhi alla Madonna col Bambino della National Gallery di Washington e al San Giovanni Giovanni Evangelista e San Lorenzo conservati nel Museo Jacquemart- Andrè di Chaalis con i quali avrebbe costituito un polittico a cinque scomparti; per altri invece, il diverso l’impianto stilistico tra l’opulento Santo Stefano e le più modeste tavole citate e le recenti indagini di laboratorio che stabilirebbero una base in terra verde per il Santo Stefano, bolo rosso per le altre opere, sono sufficienti elementi tali da eliminare ogni collegamento tra le tavole.
Tuttavia le opere appartengono allo stesso periodo e in merito alla loro destinazione vale la pena di ricordare l’affermazione di Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentarii che ci parla di “quattro capelle e quattro tauole” eseguite da Giotto in Santa Croce.
Riconoscibile per i sassi posti sul capo, simbolo della lapidazione a cui fu sottoposto e per la dalmatica, il Santo Stefano è raffigurato a mezzo busto su un ricco sfondo in oro . L’immagine del santo ritratta con particolare eleganza stupisce per l’uso del colore e dei preziosi decori in oro, la figura è rivolta a destra mentre tiene con la mano un libro di preghiere in un rosso brillante e con importanti decorazioni in oro zecchino.
Particolarmente curati sono i dettagli della veste con i bordi ricamati in oro, nero e rosso , al collo, sul petto e lungo la manica che ricade sul polso a formare una serie di realistiche pieghe mentre un lembo dorato copre il dorso del libro in primo piano, mentre i lineamenti del volto e la solidità della figura rimandano ai personaggi raffigurati nella Cappella de’Bardi, senza ombra di dubbio una delle espressioni più alte della pittura di Giotto che siano giunte sino a noi.